Le penne degli insegnanti sono sempre pronte a correggerlo, ma che cosa è questo "che" dalle mille funzioni, detto anche "che polivalente"? Proviamo a capirlo

Spesso mi capita di pronunciare frasi del tipo “Ti ricordi quel ragazzo che gli avevamo dato il numero di telefono?”. Anche in questo caso, come in altri che affronteremo in questa rubrica, troviamo sulla carta stampata e sulla rete innumerevoli interventi di protesta per un uso di “che” che risulterebbe, a detta di molti, “sbagliato”, “scorretto”, “inaccettabile” etc.
Recitano i benpensanti: la frase corretta dovrebbe essere “Ti ricordi quel ragazzo al quale/a cui/cui avevamo dato il numero di telefono?”; se seguiamo il consiglio delle grammatiche scolastiche e dei libri sulla lingua italiana che si trovano nelle librerie, il pronome relativo (“che”, “il quale”, “cui” etc.) dovrebbe portare tutte le informazioni grammaticali, in questo caso, le informazioni di complemento di termine: per questo “ al quale”, “ a cui” e “cui” sarebbero più corretti.
A proposito, il complemento di termine risponderebbe , secondo i libri di grammatica della scuola, alla domanda “a chi?” “a che cosa?”: es. “A chi lo hai dato?” “ Ad Elisa ”; come si vede dall’esempio, il complemento di termine è tipicamente accompagnato dalla preposizione “a”.
Un’analisi scientifica
L’uso del “che” è caratteristico delle cosiddette “frasi relative”. Una frase relativa è una frase che si lega ad un’altra frase e che spesso, ma non sempre, si apre con “che”: es. “Ho visto il gatto della mia vicina che si arrampicava sul muretto” .
Ad una osservazione attenta, mi si lasci dire più “scientifica”, risulta evidente che le strategie per la formazione della frase relativa sono molto diverse nel nostro caso, cioè nell’uso di “che” seguito o meno da un pronome, rispetto a quelle previste dalla norma. Nell’uso spontaneo informale della lingua sembra essere favorita una struttura nella quale “che” ha soltanto la funzione di agganciare una frase all’altra (un po’ come il “that” in inglese, per esempio); l’informazione grammaticale sarebbe poi affidata o meno ad un pronome nella frase seguente: “La persona che gli ho parlato ieri”. In quest’ultimo esempio, “che” permette di agganciare due frasi mentre “gli” permette di fare riferimento alla “persona” della frase precedente inserendola “grammaticalmente” (complemento di termine) nella nuova frase.
C’è quindi da riflettere su questo “soltanto” che ho scritto sopra, perché una caratteristica fondamentale del linguaggio umano è proprio la possibilità di agganciare all’infinito del materiale linguistico ad altro materiale linguistico: “Penso che Alan voglia dirti che Andrea pensa che Gloria desideri che Tami… ”; l’unico limite a questo agganciare è dato dalle nostre possibilità di utilizzo (produzione e comprensione) di una catena linguistica così lunga, ma a livello sintattico questa lunga frase si può senza dubbio considerare ben formata.
Questo uso di “che”, che fa parte di quello che è stato definito “che polivalente” per le sue innumerevoli funzioni e per i suoi tanti usi, è molto diffuso nella lingua italiana.
Precedenti illustri
Ci sono usi illustri di questo “che polivalente”, e qui citerei Machiavelli: “Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste quotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali et curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui".
Ci sono anche usi più pop del che polivalente, e citerei allora Jovanotti nel testo della canzone “Ragazzo fortunato” ( “Sono fortunato perché non c’è niente che ho bisogno ” : o di cui ho bisogno?) e Fabio Concato nel testo della canzone “Fiore di maggio” ( “Tu che sei nata dove c’è sempre il sole, sopra uno scoglio che ci si può tuffare ” : o dal quale ci si può tuffare?); ma mi ricordo anche “Maledetto il giorno che ti ho incontrato ”, celebre film di Carlo Verdone, che solo un adepto del galateo linguistico boccerebbe in nome di un “correttissimo” (ma è poi così corretto?) “Maledetto il giorno in cui ti ho incontrato”.
Proposte finali
Non esistono usi “migliori” di altri quando parliamo di lingua. Esistono registri e varietà linguistiche percepite più o meno appropriate a certi contesti. Ecco, il nostro “che” è adatto a quei contesti in cui non occorra filtrare con troppa cura quello che diciamo: in famiglia, tra amici etc.
La mia proposta, tuttavia, è più radicale: inviterei, quindi, tutti noi a fare più attenzione al contenuto che alla forma di quello che diciamo. La forma è il prodotto della nostra mente/cervello (come la nostra vista o il volo per gli uccelli, per esempio); il contenuto, c’è il rischio che, benché infiocchettato da una forma curatissima, sia pericolosamente stupido o errato.