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Il ragazzo che mi aveva raccolto...





Il ragazzo che mi aveva raccolto all’aeroporto mi conduceva a Mayoumba attraverso l’unica strada percorribile. Eravamo immersi in un'aria afflitta dal caldo. Sembrava di essere nella sala macchine di una nave. L’ossigeno che si infilava nelle narici pareva già usato, riciclato. Riuscivo a trattenerne un po', appena il tempo necessario per non soffocare, per poi gettarlo fuori, rincuorato, fino alla prossima inalata dove le narici si infiammavano ancora. Mi trovavo in Africa, o meglio, nella zona più interna del paese. Quell’unica strada che portava al villaggio passava attraverso una sterminata clessidra di sabbia dove il tempo trascorreva boccheggiando. Il ragazzo era molto giovane e magro e probabilmente sprovvisto di patente, cosa che in Africa poco conta. Era vestito con occasionali abiti di routine, la cui utilità principale era quella di non lasciarlo nudo. I pochi denti che la bontà divina gli aveva lasciato appesi alle gengive, riflettevano come specchi baciati dal sole. Tra la polvere che ricopriva il suo corpo si faceva largo, tenuta stretta nella mano sinistra, come la cosa più preziosa che quella mano avesse mai afferrato, una fisarmonica color argento. Alla maniera di un’aquila che stringe la preda tra gli artigli, custodiva gelosamente quell’oggetto che, a differenza del luogo dove ci trovavamo, appariva notevolmente prezioso. Lo strumento aveva un’incisione che alla prima occhiata sembrava essere d’argento. Mi interrogai sulla provenienza di un oggetto così lucente in un mondo così trascurato. Scesi da quel pensiero, e nuotando in quel mare di sabbia, mi voltavo qua e là per trovare una soluzione alla noia e finalmente il paesaggio diede un segno di vita. Passavamo davanti ad una pompa di benzina, dove un vecchio appoggiato ad un seggiolino ci guardava fissi, o meglio guardava il ragazzo al mio fianco. Si scambiarono un cenno di intesa con una mano alzata verso cielo. Il vecchio non mosse la testa, e, più che il ragazzo, forse aveva salutato il rumore dell’auto. Non aveva elargito, comunque, alcuna attenzione superflua. Sembrava come fosse da sempre lì, immobile su quel seggiolino, in posa per una foto, che continuava a non essere scattata. Appariva come una macchia nera, con un berretto rosicchiato in testa ed i piedi consumati, infilati in dei sandali dalla presenza discutibile. Dinanzi a quel vecchio un’aria fritta divorava l’inespressività di quel paesaggio. Dovevano essere circa tre ore che viaggiavamo su quella macchina, la quale sin dalla prima occhiata non mi aveva trasmesso fiducia, ma sembrava conoscere a memoria la strada di ritorno dall’aeroporto, tanto che avevo sorpreso il ragazzo in più di qualche occasione a fare tutt'altro che guidare. Tenendo il volante orientato con le ginocchia ed in un silenzio rumoroso, con qualche cenno per indicarsi l’orecchio e diversi sorrisi, iniziò ad esibirsi. Era bravo con la fisarmonica. I suoni filtravano attraverso il frastuono della macchina e giungevano al mio orecchio puliti, tanto da farsi spazio e sopraffare il rumore disordinato dell’abitacolo. Lo immaginavo su un palco polveroso, con luci deboli e me come unico spettatore. Al termine dell’esibizione, quando l’ultima nota si posava a terra, stanca, come una farfalla senza più porpora, accennai un applauso e, tornando a guardare fuori dal finestrino, un sorriso mi scivolò dalla bocca ormai asciutta. Eravamo le persone culturalmente più lontane della terra, cucite insieme da uno spazio minuscolo, eppure tra noi non mancavano le note inaspettate di una dolce musica che ci univa inevitabilmente. Con delle deboli spinte il ragazzo catturò nuovamente la mia attenzione, questa volta indicando oltre il parabrezza venato della macchina. Era il villaggio. Era Mayoumba. Il viaggio si stava esaurendo e finalmente avrei avuto gli strumenti per stemperare la curiosità che mi aveva accompagnato in quel luogo dimenticato da ogni Dio di ogni religione conosciuta. Il villaggio, in lontananza, appariva piuttosto piccolo, ed avvicinandoci le sue dimensioni non cambiarono molto. Mi stropicciai gli occhi per aiutarli a dare un contorno reale alle immagini che scorrevano, prive di forma, di colore, di costruzioni. Le poche strutture del villaggio erano fatiscenti e da lì a poco parevano destinate a cadere a pezzi. Le capanne si sostenevano per miracolo e la speranza era che il miracolo non finisse mai. Se fosse stato per merito di una preghiera andava bene lo stesso, l’importante era che quelle strutture invertebrate si mantenessero salde il più a lungo possibile. La macchina si fermò nel centro del villaggio e l’arrivo di un nuovo ospite contribuì alla gioia di un atteso cambiamento di quello scenario sterile. Tutti gli abitanti del villaggio non esitarono a venirci incontro, senza timidezza, risvegliati dalla confusione provocata dalla macchina che, con qualche strigliata di gomme e dopo aver schivato alcuni ostacoli umani che si accalcavano incuriositi, emise un rumore simile ad una nave che arriva al porto e che poi tira un ultimo gemito prima di addormentarsi sulla banchina. Vennero per primi incontro tutti i bambini. Si strinsero intorno a me, in un’immagine biblica, come se si aspettassero che gli raccontassi una favola nuova, mai ascoltata. Tra il chiasso dei bambini, a fatica si fece largo il dottor Jay, l’uomo che avevo contattato prima di intraprendere il viaggio ed al quale avrei dovuto fare da assistente. La sua stretta di mano fu calorosa, tanto che per un momento smisi di percepire la stanchezza che provavo per quell’estenuante viaggio. Il dottor Jay. Avevo avuto modo di vedere una sua foto via e-mail, al tempo in cui ci scrivevamo per pianificare la mia permanenza in Africa. Già allora mi aveva colpito. I suoi occhi. Bastava guardarli per capire. Ma era abbagliante la loro intensità, senza le barriere dello schermo del computer. La sua età anagrafica non bastava a raccontare la sua vita, le grandi gioie ed i grandi dolori, le volte che aveva sorriso nel vedere sorgere il sole e quelle in cui aveva pianto al crepuscolo, in dodici anni di vita spesi a Mayoumba. I suoi occhi luminosi mi avevano accolto dandomi il benvenuto, anche se, quello sguardo energico, non era riuscito a nascondere le fatiche e la quotidiana lotta contro la morte, in un’eterna partita di scacchi dove ti spetta sempre la seconda mossa. Il dottor Jay, con il suo sorriso vecchio e secco, ma felice, omaggiava qualsiasi posto dove si posava e i suoi modi benevoli ti facevano star bene, abbassare le difese, dimenticare quello che vedevi, lasciandoti la voglia di abbracciarlo e ringraziarlo. Forse era lui l’unico Dio da pregare. Il lungo viaggio ed il gran caldo africano mi avevano svigorito. Il dottore mi diede da bere e mi accompagnò nella capanna dove avrei alloggiato. A prima vista, una vista provata dalla debolezza, mi sembrò un luogo confortevole e sistemato di fresco per il mio arrivo. Tutto quello che mi occorreva era a portata di mano. Avrei potuto sistemarmi e riposare. Il dottor Jay riempì la capanna di dolcezza con ogni movimento protratto dal suo corpo e poi, uscendo, richiuse la porta, con la forza appena necessaria, senza sprecarne una goccia in più. Ero curioso di conoscerlo bene e di conoscere il villaggio e gli abitanti e di iniziare a viverlo, ma anche la mia curiosità aveva bisogno di riposare. Era il mio primo giorno a Moyoumba. Il mattino seguente il dottor Jay mi svegliò delicatamente. Il suo viso vivace lasciava intendere che era sveglio da tempo; per un momento ho pensato che anzi non avesse dormito affatto quella notte o che proprio non ne provava più la necessità. Il suo buongiorno fu come una colazione completa, una di quelle in cui ero abituato in Italia, anche se non avrei potuto nutrirmi soltanto della sua allegria. Egli stesso mi offrì una tazza di caffè, stranamente buono, ed un paio di biscotti secchi ed aridi. Quasi mi vergognavo di intingerli nel caffè. Il dottore se ne accorse e rise, rassicurandomi che capiva bene quello che provavo in quel momento. Anch’egli non aveva sempre vissuto da quelle parti, ma disse che mi sarei abituato presto ad un’alimentazione diversa, mentre avrei impiegato un tempo maggiore a familiarizzare con il resto. Vidi improvvisamente il suo sguardo cambiare di intensità, per poi riaccendersi della solita luce benevola. Quella stessa mattina conobbi Eric. Doveva avere all’incirca dieci anni, anche se in quel posto conoscere l’età era l’ultimo dei bisogni. Si presentò con un po’ di imbarazzo, ma non senza dedicarmi sorrisi. La parte laterale del collo di Eric era costellata di cicatrici, lo stesso valeva anche per braccia e gambe, senza considerare che la mia attenzione ci mise del tempo per distrarsi dall’ematoma che aveva sul sopracciglio destro. Eric parlava con un tono di voce sommesso, in un inglese stentato, ma comprensibile. Si avvicinò a me e mi accarezzò la mano, guardandomi con uno sguardo simile a quello del dottor Jay. Io lo tirai su in braccio. Il suo peso. Quel bambino era leggero come un palloncino e se non era per il torace che si chiudeva ed apriva, per merito del respiro, sarebbe volata via, nel cielo dell’Africa, dove vivere è l’ultima delle certezze. L’esile braccio di Eric girò intorno al mio collo e la sua fronte si appoggiò delicatamente contro la mia. Da quel momento in poi, Eric avrebbe seguito ogni mio passo come un angelo custode. Un pomeriggio, durante il tramonto, mi accompagnò fuori i confini del villaggio, ai margini tra il villaggio ed il nulla, che si presentava sterminato davanti ai nostri occhi. Guardare occhi negli occhi quella desolazione è tutta un’altra cosa che immaginarla. Osservavamo intorno a noi ciò che si poteva semplicemente definire un paesaggio arido, ma che in realtà era una proiezione dell’inferno. Ci sedemmo a terra, su un giaciglio di polvere. Eric, appoggiandosi un dito sul naso minuscolo, mi fece capire che stava per dirmi qualcosa e che io avrei dovuto soltanto ascoltare. Iniziò a raccontare con il suo inglese zoppicante, che un tempo, tanti anni fa, prima che lui nascesse, prima che il dottor Jay nascesse, davanti a noi, vivevano intere famiglie di elefanti, tanti da coprire un chilometro verso ogni direzione e che questa storia veniva tramandata dai vecchi del villaggio ed ancor prima da persone ancora più vecchie, fino ad arrivare alle orecchie dei bambini di oggi. Questa storia, mi disse, non la dovrai raccontare a nessuno, sarà il segreto che ti lascerà questo villaggio, sperduto in un territorio sterile ed assetato, senza fine. Continuò a raccontare seduto al mio fianco, guardando per tutto il tempo lo scarno scenario. Mi sembrava realmente di vivere in un sogno, uno di quelli che la mente formula dal nulla e che al mattino a malapena se ne ricordano i contorni. Il bambino continuò parlando delle famiglie di elefanti che un tempo vivevano qui davanti ai nostri occhi. Il suo racconto era così ben descritto e lentamente scandito che, a volte, gli elefanti, sembrava davvero di vederli. Mi spiegò che per il loro piccolo popolo, l’elefante è un animale sacro e quando gli chiesi come mai non se ne vedesse neanche uno in giro, lui non rispose. Poi, dopo un tempo interminabile, tornò a guardarmi e mi raccontò che un giorno arrivarono da queste parti i cacciatori di denti di elefanti e che questi provarono a scappare, ma giorno dopo giorno, vennero uccisi. Tutti. Nessuno escluso. Dai cacciatori di denti di elefanti. Mentre parlava mi sembrò di vederlo piangere, ma forse era solo il riflesso del sole, che si incamminava verso il tramonto, sulle sue cicatrici. Il colore della sua pelle assumeva colori vivaci e brillanti nella penombra del sole scortato via da alcune nuvole. Sembrava come un quadro in movimento, prezioso come il racconto che sviscerava accuratamente, come fosse l’ultimo dei segreti, pregiato come il tramonto africano a cui stavo assistendo, che da subito si impossessò del mio cuore italiano. Ben presto, mi disse, non si videro più elefanti dalle loro parti, da anni non se ne sente più nemmeno l’odore. Da quel giorno il loro popolo, dapprima rigoglioso e numeroso, subì il decadimento e visse di povertà. Pian piano in molti morirono e coloro che non morirono si ammalarono. E poi morirono anch’essi. Eric rimase in silenzio per qualche momento, poi disse che, davanti ai nostri occhi, si poteva ora vedere il cimitero degli elefanti senza denti e che nell’aria si poteva respirare lo spirito degli elefanti defunti, ormai nel paradiso dei denti d’avorio, dove avrebbero potuto riavere ciò che gli era stato tolto dagli uomini. Avrei mantenuto il segreto come promesso e avrei spesso pensato che quella storia sarebbe sopravvissuta al tempo che passa, oltre me, oltre lo stesso Eric. Mi girai verso il tramonto e senza che la polvere mi entrasse negli occhi, questi si arrossarono. Presto passò un anno, dal giorno in cui fui accolto a Mayoumba. Molti bambini avevano smesso di respirare davanti ai miei occhi durante quel primo anno, molti ne erano nati, qualcuno sano e qualcun’altro già sieropositivo. Cercavamo di fare il possibile io ed il dottor Jay e da poco, anche la nuova arrivata, la signorina Gray, venuta dalla Costa D’Avorio; un tempo era stata alunna del dottor Jay ed aveva deciso di venire quaggiù per aiutarlo, come egli aveva fatto durante gli anni di studio. Era come se ci fosse tra lei ed il dottore un legame familiare, al di là degli anni di studio. La signorina Gray, dimostrava una quarantina di anni ed aveva un aspetto delicato; non si poteva certo definirla una gran bellezza, ma i suoi modi la rendevano senz’altro gradevole. Una mattina fui svegliato prima del previsto. La signorina Gray quasi mi trascinò fuori dal letto, scortandomi nella capanna di Eric, dove già il dottor Jay stava prestando le sue cure. Eric non ci aveva mai preoccupato per la sua salute. Era sempre stato con me nell’aiutarmi a curare gli altri, come un piccolo assistente o un angelo custode. Ed ora cos’era questa urgenza? Il dottore si girò improvvisamente verso di me, ma fece finta di non vedermi. Poi si voltò di nuovo, si trattenne, abbassò lo sguardo, per poi ritornare su Eric, che se ne stava con il suo gracile corpicino steso su una coperta ricavata da stracci, ricavati da altri stracci. Mi colse un brivido inaspettato e repentino, come un fulmine che bruscamente spezza l’albero in due parti, quando capii che Eric, male, lo era sempre stato, ma ciò che più mi tormentava era il motivo per il quale tutti decisero di tacermelo. E soprattutto mi era oscuro il motivo per il quale, seppure passando con lui, ogni maledetto giorno dal mio arrivo, non me ne fossi mai accorto. I miei pugni si strinsero, e per la prima volta provai collera verso il dottor Jay. La sera stessa Eric smise di respirare. La sua fu una morte di stracci. La nostra veglia finì dopo averlo sepolto, insieme alla nostra speranza, proprio dove mi aveva raccontato del paradiso degli elefanti. Nella mia mente ascoltai il triste canto degli elefanti, che con i loro barriti di cordoglio, salutavano Eric. Non chiesi mai al dottor Jay se quella storia fosse vera, avevo promesso di mantenere il segreto. Rimasi vicino alla sepoltura di Eric e piansi con il viso poggiato sulla terra, senza preoccuparmi della polvere. C’era lo stesso sole di quando mi raccontò degli elefanti uccisi dai cacciatori di denti d’avorio. Anche il tramonto, quel giorno, era venuto a salutare Eric. Passarono anni dalla morte di Eric. Mesi da quella del dottor Jay, che una mattina, per la prima volta, non venne a svegliarmi. Io e la signorina Gray, lo trovammo nel suo letto, era ormai molto vecchio e stanco. Era vero, aveva smesso di dormire da anni e le sue energie, che provenivano dagli abitanti del villaggio, si spensero. Provai tristezza dapprima, ma gioia subito dopo, quando pensai che aveva avuto in dono la vita migliore per lui. La stessa vita che aveva scelto e dalla quale era stato designato sin dalla nascita. Sapevo che il Dottor Jay avrebbe voluto smettere di respirare in questo modo. Per lo stesso identico motivo per cui la penna era nata per scrivere, il Dottor Jay era nato per vivere a Mayoumba, dove praticò ogni sorta di incantesimo per allungare la vita di questo popolo. Nella nostra memoria, finché saremo vivi, manterremo intatto il ricordo del dottor Jay e dei suoi occhi, che con il loro calore, avevano dato colore ad un luogo dove la speranza era sempre stata invisibile. Scivolarono via le settimane. Poi mesi. Ed infine anni, nell’attesa di un sostituto del dottore, fino alla consapevolezza di essere divenuto io stesso “il nuovo dottor Jay”. Conoscevo quella gente meglio del suono della mia voce ed era un onore proseguire l’opera che egli aveva iniziato. E poi, la signorina Gray era la migliore assistente che potessi chiedere al cielo. Da anni avevo iniziato a pregare il Dio degli elefanti, l’unico che conoscevo. Il tempo passò senza tregua ed il mio fisico per quanto abituato al clima, alle difficoltà ambientali, alla carenza di cibo, alle malattie, iniziò a stancarsi ed indebolirsi. Una mattina, tra il sudore che colava dalla mia fronte, vidi la signorina Gray, al lato del mio letto. Mi apparve bellissima nonostante i segni dell’invecchiamento. Avevo 63 anni ed avevo contratto da tempo la febbre gialla, ma non avevo più la forza di reagire. Sentivo che da li a poco lo spirito di Eric mi avrebbe raggiunto per portarmi con lui nel paradiso degli elefanti. La giornata stava per finire, tra le tendine vedevo rincorrersi gli ultimi raggi del sole, fissai intensamente la signorina Gray come per dirgli che andava tutto bene, che le sue lacrime dovevano cessare, che era così che volevo smettere di respirare. Chiusi gli occhi e pensai intensamente a quel tramonto, che raccontava del mio ultimo giorno a Mayoumba.

~ gianluca vittori ~

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